Disconoscimento del Figlio: Non è Possibile Indagine su DNA Senza il Suo Consenso

Non è poco frequente, nelle aule dei Tribunali, assistere a cause in cui il genitore disconosce il figlio.

Nell’ordinamento italiano, l’art. 235 c.c. disciplina tassativamente i casi in cui tale azione è possibile: “se i coniugi non hanno coabitato nel periodo compreso tra il trecentesimo giorno ed il centottantesimo giorno prima della nascita; se durante il tempo predetto il marito era affetto da impotenza, anche se soltanto di generare e se nel medesimo periodo la moglie ha commesso adulterio o ha tenuto celata al marito la propria gravidanza e la nascita del figlio”.

Come la maggior parte delle azioni giudiziarie, anche quella del disconoscimento, è soggetta ad un termine, oltre il quale non è più possibile promuovere ricorso. Infatti, ai sensi dell’art. 244 c.c. l’azione di disconoscimento del padre deve essere proposta entro il termine di un anno  dalla nascita del figlio quando l’uomo si trovava nel luogo in cui è nato il figlio, dal giorno del suo ritorno nel luogo in cui il figlio è nato o in cui è la residenza famigliare se egli ne era lontano o comunque, soprattutto nel caso di tradimento ed infedeltà, dal giorno in cui ne ha avuto notizia.

L’azione può essere presentata, seppure con minor frequenza, anche dalla madre e dal figlio maggiorenne, sempre entro un anno dal compimento della maggiore età o dal momento in cui è venuto a conoscenza dei fatti che rendono ammissibile il disconoscimento.

Risulta naturale che l’onere della prova circa il difetto di paternità (cioè in ordine ad ogni fatto tendente ad escludere la paternità) grave su chi agisce (padre, madre o figlio), il quale dovrà provare che il figlio presenta delle caratteristiche genetiche o il gruppo sanguigno incompatibili con quelle del presunto padre oppure dimostrare ogni altro fatto che tenda ad escludere la propria paternità.

Per quanto riguarda le prove atte a dimostrare la mancata paternità, la Corte di Cassazione è recentemente intervenuta proprio in merito alle prove, alla provenienza ed utilizzo delle medesime.

Nella vicenda de quo, un padre aveva assunto un investigatore privato per estrarre campioni di DNA dai mozziconi di sigaretta fumati dal figlio al fine di valutare, a sua insaputa, previa comparazione con i dati genetici degli altri due figli, l’opportunità di promuovere un’azione di disconoscimento o meno nei suoi confronti.

La Suprema Corte nella sentenza n. 21014 del 13.09.2013 ha respinto la prova del DNA fornita dal padre prima di un giudizio, sottolineando che tale prelievo – trattandosi di un dato genetico di particolare sensibilità – non è stato effettuato previo consenso informato dell’interessato e previa l’autorizzazione ad hoc rilasciata dal Garante per la protezione dei dati personali.

In seconda analisi, l’indagine è stato effettuata non in sede giudiziale bensì ante causam per il solo scopo di “orientare, all’esito dell’esame, la successiva scelta del padre verso un’azione di disconoscimento”.

Pertanto, tale indagine sul DNA del figlio doveva non solo essere autorizzata ma anche espletata nel corso del giudizio el’eventuale rifiuto ingiustificato a sottoporvisi”, prosegue la Corte,avrebbe costituito un comportamento processuale d’indubbio rilievo probatorio, valutabile dal Giudice secondo il suo apprezzamento”.